Mikayel OHANJANYAN.
Il forte legame con la terra di origine e l’importanza degli studi in Italia
Intervista di Claudia Aliperto
Nelle forme artistiche di Ohanjanyan si riflettono influenze internazionali, l’arte classica e la complessa storia del suo paese di origine, l’Armenia, terra martoriata dai conflitti e dal paesaggio tanto aspro quanto misterioso. Un luogo magico, come lo definisce l’artista che è in Italia da oltre vent’anni, prima a Firenze poi a Pietrasanta. Ed è proprio da questo mix di culture che è caratterizzata la sua produzione.
“Ritengo che la cultura non abbia confini in generale, le influenze sono costanti così come l’essere umano è in viaggio perenne. L’Armenia è un luogo difficile da decifrare, ricco di mitologia antica ed arte, spesso purtroppo distrutta dalla mano dell’uomo. In modo inconscio, posso affermare di essere stato influenzato proprio dal paesaggio molto forte, magico, direi potente che lo caratterizza. La mia stessa passione per l’arte è innata, fui io a chiedere ai miei genitori di frequentare la scuola d’arte il pomeriggio quando avevo solo dieci anni”.
Cosa le insegnavano?
“Di tutto legno, pittura, scultura, poi con la scuola media mi sono iscritto al liceo e all’Accademia di Belle arti di Yerevan. La scuola armena è basata sull’arte classica, per cui utilizzavamo i gessi di sculture greco romane molto famose, sulla tradizione della scuola russa di San Pietroburgo e delle radici europee, tanto che nel 1800 i giovani più meritevoli si recavano in Francia o Italia con borse di studio concesse dallo Zar”.
Lei come ci è arrivato in Italia?
“Nel ’98 per la Biennale di Scultura a Ravenna dove vinsi il terzo premio, a 20 anni ero il più giovane studente dell’accademia di Yerevan che vi partecipava. Poi girai l’Italia, Roma, Firenze e Venezia. Avendo studiato storia dell’arte romana e greca conoscevo molto bene tutti i capolavori classici e rimasi molto colpito da Firenze dove ho concluso gli studi”.
Con il senno di poi è stata la scelta giusta?
“L’Italia per me è stata molto importante, in Armenia c’è una scuola fortissima basata sull’arte classica, ma per tradizione sovietica l’arte si studiava fino al Futurismo e poi iniziava quella dei paesi dell’Unione Sovietica. Dell’occidente studiavamo solo gli artisti filo comunisti e degli altri non si trovava materiale nemmeno nelle biblioteche. Per me, dunque, è stato fondamentale trovarmi a Firenze per metabolizzare tutto quello che avevo appreso sui banchi di scuola e allo stesso tempo è stato un occasione unica per apprendere l’arte del XX secolo”.
Proprio Firenze nel 2018 ha vinto un Concorso per il Museo dell’Opera del Duomo di Santa Maria del Fiore.
“Si trattava di un concorso internazionale bandito in memoria di Enrico Marinelli, imprenditore che aveva sostenuto alcuni restauri del Museo. L’opera è stata esposta per sei mesi ed è entrata a far parte della collezione permanente”.
La sua carriera è culminata con il riconoscimento del Leone d’Oro alla biennale di Venezia dove partecipò con una collettiva. Il tema era l’armenità, come la spiegherebbe?
“Era una mostra con un’ampia visione di globalizzazione che coinvolgeva 18 artisti da tutto il mondo di origini armene, anche se gran parte di questi non erano mai stati in Armenia. La curatrice chiese a ciascuno di noi di spiegare cos’era l’armenità, ovvero se ti dichiari armeno, cos’è per te esserlo? Ognuno di noi ha interpretato a modo suo questo concetto: personalmente sono arrivato alla conclusione che noi tutti siamo il risultato di influenze del passato e che non esiste l’armenità al cento per cento. L’armenità non è una cosa che appartiene a me, ma una vibrazione particolare talmente potente che è penetrata nel dna della popolazione che ha vissuto lì per millenni”.
Molte delle sue opere sono frutto del vissuto personale. “Letters” in particolare è dedicata a sua nonna, perchè?
“Pochi anni fa desecretarono gli archivi russi e trovai la storia di uno dei fratelli di mia nonna partiti per il fronte durante la Seconda Guerra Mondiale. Difficile spiegare il sollievo nel sapere finalmente cosa accadde. Da piccolo mi ricordo che mia nonna leggeva spesso delle lettere piangendo, le ho chiesto molte volte il motivo di quel pianto ma non mi ha mai risposto. Crescendo ho saputo che si trattava della corrispondenza dei suoi fratelli. Da questa storia ho deciso di realizzare una piccola installazione, esposta presso un istituto bancario nel centro di Pietrasanta, che riporta alcune frasi di quella corrispondenza, incise su lastre di cortain sigillate in blocchi di basalto”.
Lei è tra coloro che accettano di buon grado l’utilizzo della tecnologia nella scultura?
“Ne faccio uso per le mie opere e ritengo che sia utile per ridurre tempi e sprechi del materiale. La tradizione in realtà non è la tecnica perchè quella che usiamo oggi un domani sarà obsoleta. A ripetere costantemente il passato in modo cieco si corre il rischio di diventare dei cadaveri viventi. Ovviamente l’uso della macchina deve avvenire con intellig
enza: l’opera d’arte non è la tecnicità, ci sono tanti tecnici preparati che non fanno arte. L’arte è il connubio di bravura, pensiero, sensibilità, capacità di esprimere una visione. Anche all’epoca di Michelangelo vi erano tanti artigiani bravi tecnicamente ma nessuno era come Michelangelo, perchè lui non era solo bravo ma era quello che pensava. La mia bravura come artista sta nel trasmettere un pensiero attraverso la forma per suscitare una riflessione nel pubblico. Ritengo che l’arte sia un percorso, da artista non voglio mai imporre una mia visione ma attraverso la scultura voglio dare la possibilità di entrare in un’altra dimensione e trovare le risposte in base alle capacità culturali e storiche di ciascuno di noi”.
MIKAYEL OHANJANYAN è nato a Yerevan nel 1976, vive e lavora tra Firenze e Pietrasanta.
Si è laureato all’Accademia Statale di Belle Arti di Yerevan ed ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Ha partecipato a numerose mostre internazionali, Fra i tanti riconoscimenti anche il Premio Internazionale dell’Arte Contemporanea E. Marinelli per il Museo dell’Opera del Duomo di Firenze – con l’opera “La Soglia è la Sorgente” del 2018 che è poi entrata a far parte della collezione permanente del Museo stesso.