skip to Main Content

Il fascino senza tempo del marmo

di Claudia Aliperto

Nella più lontana contea, nel più sperduto villaggio…
La storia di Orlando Dinelli, pioniere della tradizione artistica di Pietrasanta che nel primo ‘900 realizzò decine di chiese in tutto il mondo partendo dalle campagne della verde Irlanda

Il territorio versiliese è custode di innumerevoli vicende tra il periodo antecedente alla Seconda Guerra Mondiale e i decenni che seguirono, vicende che si intrecciano con la storia del suo tessuto economico legato prevalentemente al marmo. Aneddoti, frammenti di storia, quella dei grandi eventi e le storie di pietrasantini che lavoravano la pietra naturale, conosciuta in tutto il mondo, per esportarla in manufatti che hanno arricchito la storia di Europa e dell’Americhe. Un patrimonio di grande valenza culturale che fa emergere ancora con maggior forza il filo rosso che unisce le storie dei singoli a quelle del comparto lapideo.

Negli anni venti del Novecento, a Pietrasanta i laboratori artistici si contavano sulle dita di una mano, tra questi la Dinelli e Figli, piccola realtà a conduzione familiare dei due fratelli Orlando ed Alberto. Una storia incredibile quella di Orlando Dinelli che purtroppo si è intrecciata con i grandi eventi, dal conflitto mondiale alla Strage di S. Anna fino alla ricostruzione dopo la guerra. All’epoca Dinelli fu un imprenditore illuminato, come lo definiremmo oggi, dopo aver aperto il laboratorio nel ’25, con la Grande Crisi decise di iniziare a studiare l’inglese e puntare sull’estero per avviare il core business dell’azienda. “Un suo conoscente di Carrara che lavorava in Inghilterra gli aveva prospettato la possibilità di fare affari – racconta il figlio, l’avvocato Francesco Dinelli proprio nel suo studio che un tempo ospitava il laboratorio nella cittadina di Pietrasanta – il nonno Romolo era emigrato in Brasile a fine Ottocento, dove mio padre era nato, poi nel 1907 decise di tornare in Italia dove comprò il terreno su cui costruì il laboratorio per la lavorazione del marmo.

Alla fine del ‘29 mio padre iniziò a cercare lavoro non solo in Inghilterra, ma anche in Irlanda dove incontrò diversi sacerdoti cattolici che volevano abbellire le Chiese, con uno stile che richiamava molto quello di Michelangelo con balaustre e altari. L’azienda era proprietaria anche di alcune cave di Rosso Levanto a Bonassola in Liguria, materiale molto apprezzato”. La fortuna di Dinelli parte da lì e si consolida con l’arte sacra in Irlanda, da dove una volta aggiudicatesi le commissioni egli tornava in Italia per seguire la lavorazione del marmo e la spedizione da Livorno ed infine la messa in posa in loco. Il viaggio non era agevole e molto lungo: con il treno si impiegavano diversi giorni, la prima tappa era Parigi, poi si raggiungeva Calais per arrivare in Inghilterra a Liverpool ed infine a Dublino. “L’Irlanda aveva da poco ottenuto l’indipendenza e c’era molto fervore intorno all’arte sacra, tanto che mio padre iniziò ad ottenere numerose commesse ed era diventato amico del Cardinale di Irlanda e di un architetto importante Padre Gregory – ricorda il figlio – Una sera con i suoi operai doveva recarsi a Leicester per un lavoro, ma sbagliarono strada ed arrivarono al paese di Loughborough, dove riuscirono comunque ad ottenere una commissione dal parroco della chiesa di Saint Maris. In quel paese il destino volle che incontrasse mia madre, Cecilia che all’epoca aveva solo diciotto anni. Si rividero due anni dopo quando mio padre tornò in Irlanda dove rimasero insieme fino al 1940, quando mio padre decise di rientrare in Italia per lavoro, convinto che il nostro paese non sarebbe mai entrato in guerra, già scoppiata l’anno precedente” commenta. In realtà fu l’ultimo loro incontro, con l’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, Dinelli non riuscì più a vedere la moglie se non sei anni dopo con la fine del conflitto. Lui stesso visse gli anni più terribili della guerra, compresa la strage di S.Anna di Stazzema e le deportazioni nei campi di concentramento. A testimoniare la sua vicenda, una lettera indirizzata alla moglie. “Nel maggio del ’45 riuscì a mandare una lettera a mia madre grazie ad un soldato inglese che gli promise di indirizzarla una volta rientrato in Inghilterra – prosegue Dinelli – Nella lettera raccontava dell’occupazione tedesca in Italia, dello sfollamento e della strage di S. Anna del 12 agosto 1944 dove furono uccisi numerosi parenti, mentre lui si era rifugiato a Valdicastello e da dove fu deportato nel campo di concentramento di Dakau, destinato ai lavori forzati nelle miniere”. Orlando Dinelli riuscì a sopravvivere alle deportazioni e rientrare a piedi dalla Germania, impiegando due settimane e mezzo. “I miei genitori si incontrarono nuovamente a Dublino nell’ottobre del ’46, dopo oltre più di un anno dalla fine del conflitto. Dopo il rientro alla normalità, molte cose erano cambiate: mio padre aveva problemi di cuore, negli anni cinquanta tornò in Inghilterra, ma senza più quell’entusiasmo dell’inizio. Proseguì, comunque, l’attività nel settore dell’edilizia fino alla sua morte nel ’68” chiosa.

Altre notizie

Vuoi ulteriori informazioni sul progetto Ve-Nature e sulle diverse fasi che lo compongono?

Compila il form di contatto, ti risponderemo in maniera rapida ed esaustiva.


    Back To Top